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Il baseball a teatro

 

di Michele Dodde

Il popolare successo del baseball sul grande schermo, che poteva permettere anche nei cinema presso le cittadine rurali di poter assistere alle esibizioni dei giocatori ed alle loro prodezze, ingelosì non poco gli artisti dediti a calcare il palcoscenico comunque consapevoli che il teatro non poteva rappresentare, date le sue modalità, la visione in diretta del gioco. Pertanto, poiché il baseball era ormai divenuto argomento di dominio pubblico, il teatro incominciò a richiedere agli autori storie inerenti causalità del baseball da offrire con dialoghi a volte drammatici, altre ironici, altre a configurare risvolti umani della vita che potessero affascinare il pubblico. 

Tuttavia, anche se il teatro nonostante arguti testi non riuscirà mai ad essere competitivo con il cinema, è stato su un palcoscenico di Chicago prima, dicembre 1895, ed a gennaio poi su quello rinomato di Broadway, New York, che una storia inerente il baseball sia stata rappresentata: “A Runaway Colt” scritto dall’allora apprezzatissimo drammaturgo Charles Hale Hoyt e che poi lo sceneggiò quale cortometraggio muto anche per il cinema nel 1917 con lo stesso titolo e diretto da J.A.Richmond.

Nella foto la locandina tratta dal sito thisdayinbaseball.com

 

Prodotto dalla Selig, aveva come interpreti Frank Casey, Amy Dennis, William Fables, James Harris e per piaggeria anche dallo stesso Hale Hoyt.

 

La particolarità di questa rappresentazione è che tra gli interpreti debuttò Cap Anson il “Great Old Man of Baseball” e che in quel modo stava esaudendo una sua intima aspirazione oltre ad essere poi il primo giocatore di baseball ad aver avuto la possibilità di calcare le scene.

 

In effetti la sua ambizione di essere un attore era fomentata dalla volontà di oscurare l’emergente fascino del lanciatore Rube Waddell, che dopo il suo debutto nella Major League nel 1897 si dice richiamasse sugli spalti molto pubblico femminile, e tanto era la sua incontenibile prosopopea che era solito usare come personale carta intestata per la corrispondenza l’enigmatico dittico: “Un attore migliore di qualsiasi giocatore di baseball. Un giocatore di baseball migliore di qualsiasi attore”.

 

Coinvolse così Hale Hoyt nella stesura del dramma con una serie di propri riferimenti, bonari o meno, dell’ambiente del baseball di cui Anson non solo era uno dei migliori giocatori ma considerato anche la coscienza del gioco in una fase critica degli anni di sviluppo e formativi dello stesso, poi la sua inclinazione a discutere con gli arbitri ed angosciosamente anche a rimarcare il suo acceso riferimento razzista espresso su un manager nero.

 

“A Runaway Colt” (Colts era il nomignolo che i tifosi a volte usavano per indicare i White Stockings), articolato in quattro atti, narra la triste vicenda di corruzione da parte di loschi giocatori d’azzardo nei confronti del lanciatore Manley Manners.

 

Il coinvolgimento della famiglia, l’aperta descrizione del giovane talentuoso lanciatore, la malvagità e la gelosia di un amico di famiglia nei confronti della sua fidanzata cercheranno di destabilizzare i puri intendimenti e l’onestà della sua prestazione durante la gara ma poi ci sarà un giusto finale morale.

 

Il melodramma fu dapprima presentato il 2 dicembre del 1895 a Chicago per essere poi rappresentato in replica all’American Theatre in New York nel gennaio 1896. La parabola di Cap Anson come attore fini lì, meglio ricordarlo come giocatore. 

foto da baseballhall.org
foto da baseballhall.org

Divenuto ormai oggetto di continui colloqui quotidiani e di riferimento nella società, il baseball incomincia ad apparire in molti sketches pubblicitari ed in musical ma in teatro ritorna a gran richiesta nel 1913 con una commedia in quattro atti scritta a quattro mani da Rida Johnson Young e Christopher Mathewson, sì, proprio lui, il nominato “The Gentleman’s Hurlier” o meglio “The Christian Gentleman” indimenticato lanciatore destro che ha giocato in Major League per 17 stagioni e molto apprezzato e stimato nel mondo del baseball per il suo sobrio stile di vita e per il suo sentito credo religioso che gli vietava di lanciare durante le gare previste nel giorno di domenica.

 

Incontrando la drammaturga Rida Young con lei confabulò di portare sul palcoscenico di Broadway una storia coinvolgente il baseball. Nacque così “The Girl and the Pennant” apparentemente la favola di una donna proprietaria della squadra di baseball “Eagles” ed il suo responsabile della progettazione che si contendono il controllo finanziario della società ma che in realtà con i dovuti distinguo altro non era che la storia vera di Helene Hathaway Britton leggendaria proprietaria dei St. Louis Cardinals.

Fu un’idea vincente con diverse sfaccettature:

la prima in quanto Helene fu la prima donna a possedere una franchigia della Major League, dono di fatto ricevuto in eredità da suo zio Stanley Robinson nel 1911, ed a muoversi tra i colletti bianchi dei proprietari di squadre affrontando con cipiglio e determinazione l’osteggiamento maschilista degli stessi.

 

La seconda perché era un periodo in cui serpeggiavano i primi dettami dell’emancipazione femminile.

 

La terza, come ebbe a dire lo stesso Mathewson in una intervista “Una donna protagonista oltre ad essere originale di certo avrebbe attirato l’interesse comprensivo di tutte le donne che, è bene dirlo, costituiscono un’ampia parte del pubblico teatrale”.

 

La storia romanzata di Helene, Mona Fitzgerald sul palcoscenico, ebbe il debutto il 23 ottobre presso il Lyric Theatre a New York e fu replicato per venti volte con un buon successo ma senza evidenziare però che poi la vera protagonista Helene fu costretta a vendere la squadra a seguito di incisive pressioni finanziarie nel 1917.

 

Nel 1925 Theodore Westman Jr. scrive una mielosa commedia che ebbe un seguito di 32 repliche. Nell’inventato trittico c’è Ruth Holden, la figlia del manager che è innamorata del lanciatore Jimmy Buck che però a sua volta ama la figlia del proprietario del Club. Poi, nella gara per il titolo con il manager indeciso se sostituire il vanesio lanciatore ecco che Ruth riesce con romantica attenzione a riportare il giocatore nella giusta realtà con un finale strappacuori quando Jimmy finalmente le dichiarerà il suo amore che sarà sempre forte come massiccio avorio.

Da qui in poi nei teatri il baseball viene sublimato nell’arte interpretativa da moltissime commedie che vedranno il loro picco negli anni ottanta con oltre trentuno rappresentazioni inerenti tra le tante la spensierata e caparbia volontà di una donna che riuscirà a diventare un lanciatore in una gara della Major League scritta da Mark Berman nel 1980 (Lady of the Diamond), gli agrodolci ricordi ripassati tra due anziani giocatori compilati da Joseph Hart nel 1981 (Hit and Run), l’immancabile attenzione della vita di Babe Ruth annotata da Bob e Ann Acosta nel 1984 (The Babe), la memoria dell’anziano lanciatore dei Boston Red Sox quando affrontò la partita più importante della sua vita riportata in un monologo da David M. Mead nel 1984 (Bottom of the Fourth), le tristi e drammatiche vicende dello scandalo dei “Black Sox” che hanno caratterizzato la fine della “Dead Ball Era” nel mondo del baseball evidenziate da Richard Pioreck nel 1983 (Say it Ain’t so, Joe!) e da Lawrence Kelly nel 1986 (Out!), il drammatico dialogo e lo struggente conflitto che si innesta alla fine del 1950 tra un ex grande giocatore della Negro League baseball e suo figlio che sta diventando un promettente giocatore di football redatto da August Wilson nel 1987 (Fences) (foto in home page) e portato poi sul grande schermo da Denzel Washington nel 2017, il forbito dialogo quasi come sfida tra un eccentrico lanciatore ed una intellettuale appassionata di baseball nel coinvolgere la metafisica con il gioco stesso ideato da Quincy Long nel 1988 (Something about Baseball) e da ultimo un’attenzione meritano Allen Meyer e Michael Nowak per aver spolverato il canovaccio delle vite vissute portando in teatro nel 1987 con “The Signal Season of Dummy Hoy” la vita sportiva di William Hoy soprannominato Dummy.

Era costui affetto da sordità patita all’età di tre anni a causa della meningite ma nonostante questo handicap, giocando con amici, fu notato dallo scout Franck Selee che gli fece firmare un contratto con i Washington Nationals.

 

Da allora calcò i campi di gioco della Major League per ben 14 anni. Si dice, ma non è acclarato, che al fine di mitigare la sua menomazione gli umpire per far meglio capire al giocatore i loro giudizi emessi durante le gare abbiano incominciato ad usare opportuni segnali con le braccia ora divenuti visibile bagaglio tecnico.

 

A dare un senso poi a questo giocatore sono stati portati sul grande schermo nel 2008 il documentario “Dummy Hoy. A Deaf Hero” mentre nel 2019 il film “The Silent Natural”, biografia del primo giocatore sordo a giocare a baseball.

 

Tuttavia dopo questo copioso gettito il baseball a teatro non ha avuto un positivo seguito ma solo sprazzi in qualche autorevole musical e che però nella commedia “The Umpire” scritta da Will M. Hough e Frank R. Adams e musicata da Joseph E. Howard nel 1905 si affermò con 300 repliche.

 

Michele Dodde

 

Nel video sotto una presentazione di "The Signal Season of Dummy Hoy"

 

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Commenti: 3
  • #1

    Rosa Mariano (lunedì, 17 aprile 2023 09:16)

    Che bella storia!

  • #2

    Aldo Accettura (lunedì, 17 aprile 2023 19:47)

    Bello bello bello.
    Un racconto straordinario.
    Ancora una volta caro Michele ti sei superato.

  • #3

    Marcella (mercoledì, 26 aprile 2023 13:25)

    La puntuale e caparbia ricerca in ogni campo dell'arte e dello sport,
    l'incredibile facondia di particolari, che ad un osservatore meno attento sfuggirebbero, rendono i tuoi racconti insuperabili