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I ricordi che rendono umano il leggendario Joe Jackson

di Michele Dodde

Tra i molti giocatori che hanno reso immortale il gioco del baseball emerge per affetto, bravura ed ingenuità l’outfielder Joe Jackson già a partire dal suo soprannome “Shoeless” (senza scarpe) consegnato alla storia dalla originale cronaca di un giornalista sportivo. Purtroppo, e qui la storia lo ricorderà sempre come un ingenuo analfabeta plagiato da tristi compagni di squadra che lo coinvolsero nello scandalo delle gare truccate della World Series del 1919, gli eventi successivi al processo con relativa assoluzione civile ma decisa condanna in ambito sportivo fortemente voluta dall’integerrimo giudice Kennesaw Mountain Landis, assurto in quel tempo al soglio di Commissario della Major League con la ferma volontà politica di eliminare l’andazzo delle scommesse malavitose e clandestine sulle gare del baseball, causarono la fine prematura ed insindacabile della sua carriera nel dorato mondo professionista della Major League. 

Una vita da perfetta sceneggiatura la sua trascorsa durante 13 anni (1908–1920) che lo hanno visto indossare i colori prima degli Athletics di Philadelphia (1908-1909) poi degli allora Naps e Indians di Cleveland (1910-1915) ed infine dei White Sox di Chicago (1916–1920) raggiungendo ampia notorietà con un palmares di caratura avendo raggiunto una media battuta pari a .356 combinato con 357 doppie, 168 triple, 54 home run ed un 792 RBI.

 

Così, nonostante la sua interdizione a vita dai campi di gioco, la sua accorata difesa a prova della sua innocenza al complotto, poi l’affetto che aveva suscitato tra il pubblico per i suoi trascorsi sportivi ed infine la sua proverbiale ingenuità lo hanno relegato tra i grandi del baseball e mai dimenticato dai cronisti sportivi che pure dopo i molti anni del suo distacco dai campi da gioco lo hanno sempre intervistato chiedendo aspetti ed aneddoti della sua carriera.

Ritiratosi a Greenville, sua città natale dopo alcune sporadiche apparizioni con squadre che giocavano fuori dai circuiti regolari, continuava così ad essere intervistato sull’onda lunga della sua carriera ed interessante, tra le molte, fu l’intervista-colloquio che ebbe con il giornalista Carter Latimer e pubblicata sul “Greenville News” il 27 settembre del 1942, ben 22 anni dopo il suo allontanamento dalla Major League.

 

Con riconosciuta grande serenità ancora una volta andò a precisare di non portare alcun rancore verso chiunque ed anzi a ribadire sempre che: “E’ vero, ho fatto una vita dura con il baseball... ma il mondo non avrebbe potuto trattarmi meglio. Non ho rimpianti e mi piace, se voglio guardare al mio passato, ricordare i giochi particolari accaduti sui diamanti e poi tutte quelle persone che ho conosciuto e frequentato con simpatia. Poi, indipendentemente da quello che più di qualcuno dice, riaffermerò sempre che sono innocente di qualsiasi azione sbagliata. Ho dato al baseball tutto quello che avevo. L'Essere Supremo è l'unico a cui ho da riferire una risposta. Se avessi giocato male e girato più volte a vuoto la mazza allora sì che ci sarebbero stati seri motivi per sospettare. Penso invece che il mio record nelle World Series del 1919 resisterà a quello di qualsiasi altro giocatore in qualsiasi altra World Series in tutta la storia del baseball. Se fossi stato colpevole per aver falsificato il mio ruolo nella Serie, oggi non mi sentirei sereno e consapevole del mio personale successo. E poi prendi atto che io sono un grande sostenitore della retribuzione. Ebbene, ho fatto più soldi da quando sono fuori dal baseball rispetto a quando ne ero un protagonista. Ed ho questa consolazione: il buon Dio sa che sono innocente di qualsiasi trasgressione”.

Traspare qui sempre l’ingenuità di Shoeless poiché nel citare le sue eccellenti giocate durante quella manipolata World Series del 1919 sorvola di fatto che, l’essere a conoscenza della combine, non lo faceva sentiva colpevole perché più volte in sua difesa avrebbe poi affermato di aver inutilmente tentato in anticipo di informare Charles Comiskey, il proprietario della franchigia, di quello che stava succedendo.

 

Per quanto riguarda il gioco ebbe a raccontare: “Ebbene, quando mi recavo nel box di battuta, il mio unico scopo era quello di arrivare in base in ogni modo possibile, sia battendo la pallina, sia cercando di farmi colpire o sia per usufruire della regola della “base su ball”. Se poi avessero dato vitalità alla regola del “mordi e fuggi”, allora sarei stato il primo a gettare la mazza contro la pallina per stabilire un contatto e poi correre verso la prima base. Devo anche confessare che qualsiasi lanciatore per me era eguale ad un altro poiché non mi interessavano le loro peculiarità ma solo la pallina. Io lì nel box di battuta facevo vibrare la mazza e quando il manager mi segnalava di battere io andavo alla ricerca di questa indipendentemente se fosse stata lanciata con traiettoria bassa, o alta, o dentro o fuori dalla zona dello strike. Però non posso non citare come avversario Walter Perry Johnson che è stato uno dei più grandi lanciatori di inizio 20esimo secolo ed il più veloce di tutti i tempi. Ricordo che il commentatore Joe Williams scrisse sul “New York World” in una delle sue comparazioni qualche tempo fa che contro questa icona dei Washington Senators la mia media battuta in carriera contro questo lanciatore è stata pari a 0.475. Com’è che sono riuscito a realizzarla così alta? Come riuscivo ad incocciare la sua pallina veloce? Perché, come ho detto, guardavo solo la pallina ma ero anche consapevole che Walter non avrebbe mai intimorito un battitore cercando di colpirlo. Lanciava sempre la pallina lontana e dunque mai una interna.”

 

Indimenticabile personaggio dunque che sempre ritorna nell’immaginario collettivo anche attraverso la letteratura ed il grande schermo, come prova lo scrittore William Patrick Kinsella ed i film “Field of Dreams” ed “Eight Men Out”, ma soprattutto perché Jackson  è stato realmente un vero talento naturale del baseball. Il suo successo come giocatore insieme alla sua scioccante interdizione dal gioco lo hanno reso poi più grande nel corso degli anni poiché invece di abbattersi credendo di essere stata una vittima, aveva solo un vivo apprezzamento per le sue esperienze sui diamanti miste alla grande umanità e passione nel difendere la sua reputazione.

 

Michele Dodde

 

 

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Commenti: 1
  • #1

    Claudio Claudani (lunedì, 04 aprile 2022 09:53)

    Sembra una spy story! Un misto di verità dette e non dette, di fatti veri ed altri “ raccontati” , comunque sempre uno squarcio in un mondo a me sconosciuto e perciò sempre più da conoscere.