Accomunati da alcuni elementi di fondo, baseball e cricket rientrano entrambi nella famiglia dei cosiddetti «bat and ball games» («giochi di palla e mazza»): la sintassi dei due sport, dunque, è per certi aspetti simile. Tuttavia in alcuni punti cruciali essi differiscono notevolmente: un’analisi approfondita rivela come tali differenze strutturali abbiano avuto comunque un ruolo nel processo che fece del baseball lo sport più popolare d’America.
Primo su tutti, il fattore tempo: negli anni presi in questione la durata media dei match di baseball era tra le due e le tre ore e mezza di gioco. Di contro, una partita di cricket si spalmava sull’intero arco del giorno, a volte arrivando ad occuparne persino tre. Certo è meno delle cinque (5!) giornate richieste oggi dai cosiddetti International Matches, ma era comunque una durata abnorme, che ostacolò sensibilmente l’ascesa del cricket in quanto «spectator sport».
Se infatti per quanto riguarda la mera pratica del gioco non vi erano differenze, perché stare all’aria aperta ad allenarsi o a giocare a baseball in modo informale richiedeva più o meno lo stesso impegno in termini di tempo e risorse di un po’ di scrub cricket, diverso era il caso delle partite regolamentari: in questo caso le richieste temporali del cricket, decisamente troppo esose, ne hanno minato alla base la possibilità di attrarre con regolarità grandi folle di spettatori alle partite.
A dire il vero anch’esso, negli anni precedenti alla guerra civile, ha avuto i suoi bagni di folla, premier events che hanno visto radunarsi migliaia di tifosi. Si pensi ad esempio alla sfida annuale tra Stati Uniti e Canada, che andò in scena a partire dal 1840 e fu la prima competizione internazionale nella storia del cricket (anche se in realtà a scendere il campo per gli Usa furono quasi sempre giocatori nati in Inghilterra): nel contest del settembre 1844 oltre quattromila persone si recarono al St. George Ground di Manhattan per vedere la sfida tra il Toronto Cricket Club e i padroni di casa, i Dragon Slayers del St. George club.
Tre lustri più tardi, nel momento in cui il cricket era all’apice della sua popolarità in America, suscitò ancora più entusiasmo la trasferta di una selezione di professionisti inglesi, che nel 1859 attraversò l’Atlantico per disputare una tournée in suolo americano: il «three-day match» giocato ad ottobre all’Elysian Fields di Hoboken, (foto sopra) in cui si fronteggiarono l’undici «All-England» capitanato da Fred Lillywhite e i 22 (!) cricketers scelti dal St. George Club, vide accorrere una folla di oltre ventimila persone entusiaste. E grande richiamo ebbero anche le sfide annuali tra cricketers English-born e squadre di «all-native», la cui prima edizione risale al 1856.
Ma al di là di questi eventi particolari (premier events, come gli all-star game di oggi), in cui l’enorme risonanza riuscì effettivamente ad attirare il tifo e il sostegno di un gran numero di appassionati, il cricket fallì nell’assicurarsi una base di sostenitori più stabile, che fosse in grado di seguire il gioco con continuità anche nell’ordinario svolgimento della stagione sportiva.
Il cricket insomma non riuscì ad estendere la sua influenza molto al di là della cerchia dei praticanti, cosa che invece fu in grado di fare il baseball, che divenne National Pastime proprio per la capacità di attrarre gli interessi non solo dei giocatori, ma anche degli spettatori e in generale dei fan, che oltre a seguire gli sviluppi del gioco su giornali, periodici, guide specializzate, potevano recarsi a vedere un match investendo una porzione di tempo ridotta, se comparata a quella che avrebbe richiesto il cricket.
Il baseball ebbe insomma successo in quanto da un certo punto in poi fu recepito, oltre che come «participatory sport», anche come «spectator sport», come spettacolo capace di esercitare attrattiva non solo sui giocatori ma soprattutto sui ben più ampi strati della popolazione rappresentati dai (potenziali) tifosi. E in questo aspetto i vincoli temporali giocarono un ruolo decisivo, perché potendo essere giocato nell’arco di poche ore (contro le giornate intere richieste dal cricket), il baseball era il passatempo ideale per diffondersi agli strati sociali medio-bassi, che erano i più popolosi.
Contro l’importanza del fattore tempo si è schierato, in un saggio comunque molto acuto, Ian Tyrrell. Egli ha negato il peso di questa variabile perché, a suo modo di vedere, negli anni cinquanta
del secolo scorso «c’era poco da scegliere» in quanto a velocità. Tyrrell chiama in ballo il fatto che il baseball all’epoca non fosse più veloce del cricket, adducendo che alcune versioni allora
in voga avessero una durata superiore alle quattro ore, come accadeva ad esempio per il “Massachusetts game” che si concludeva solo quando una delle due squadre avesse messo a segno
cento punti (100!) battuti a casa.
Per questo, secondo l’autore, sia il cricket che il baseball erano in realtà in origine due giochi lenti, e mentre uno fu “velocizzato”, l’altro mantenne un rimo più lento che ne decretò alla fine la scomparsa.
Sulla duttilità del baseball, e su come in effetti una serie di cambiamenti ne modificò lo stile di gioco per andare incontro ai gusti del pubblico americano, rimandiamo al paragrafo seguente, in cui vedremo come questa malleabilità ebbe un ruolo cruciale.
Qui dobbiamo segnalare i limiti dell’analisi di Tyrrell, il quale se ha avuto da un lato il merito di evidenziare il ruolo giocato dalla maggiore disponibilità del baseball a lasciarsi “velocizzare”, dall’altro non ha però tenuto in adeguata considerazione che anche prima di subire delle modifiche regolamentari questo fosse già, per la sua struttura sintattica, più idoneo del cricket a conquistare l’anima degli Americani.
Innanzitutto, nell’esempio del “Massachusetts Game”, egli sottovaluta, pur accennandovi, il fatto che questa versione del gioco, proprio perché più lenta, fu anch’essa soppiantata (come il cricket) a beneficio di quella newyorchese, che come visto nel capitolo secondo divenne “il modo” di giocare a baseball.
Ma soprattutto tralascia alcune importanti divergenze nelle specifiche sintassi di gioco dei due sport che, al di là del mero fattore temporale, ebbero un peso rilevante nell’incidere sui rispettivi destini. In primis, nel baseball il battitore ha l’obbligo di correre in base, mentre nel cricket può decidere se correre o meno.
Va da sé che questo porta il secondo ad avere una natura più attendista, meno rischiosa, dunque meno emozionante.
Inoltre il cricket si svolge con due sole lunghe fasi di attacco e difesa, mentre la suddivisione in nove inning del baseball assicura una continua alternanza tra le due fasi di gioco: questo permette rimonte e rovesci nei risultati e rende il ritmo più avvincente, aumentando le possibilità che un osservatore casuale si faccia coinvolgere da quanto accade in campo. Ma rende di gran lunga più divertente anche il ruolo dei giocatori, che non restano inattivi per lungo tempo come accade nel cricket, in cui fra l’altro l’alternanza tra attacco e difesa si ha solo quando sono stati eliminati tutti i battitori (quindi ben undici): anche da questo punto di vista la regola del «three out, all out» del baseball (che al terzo giocatore eliminato pone fine al turno di battuta di una squadra) permette un ritmo più «exciting», più drammatico e frenetico.
Oltre a questi elementi legati alle dinamiche di gioco, anche altri aspetti concorrevano ad attribuire al baseball un ritmo più «lively»: ad esempio la conformazione del campo, già visto come uno degli elementi per cui la versione “New York game” ebbe la meglio su quella in voga nel Massachusetts. Le linee del foul infatti, delimitando l’area di gioco intorno alla casa base, permettevano al pubblico di prendere posto proprio a ridosso del battitore, ossia vicino al “cuore” del gioco. La conformazione del campo da cricket invece, ponendo bowler e battitore in mezzo al campo, ne allontanava il fulcro dagli occhi del pubblico, limitandone gli entusiasmi.
Sia dal punto di vista dei giocatori che da quello degli spettatori, quindi, il baseball si fece di gran lunga preferire al cricket sotto svariati aspetti: per i primi perché le partite duravano meno e al contempo offrivano più possibilità di interazione, grazie al più rapido ricambio tra difesa e attacco; per i secondi perché l’esito delle partite era questione di poche ore, piuttosto che di giorni interi, ed inoltre perché prometteva di offrire più azione, più coinvolgimento, più emozione.
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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.
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