· 

Quando la storia ha luoghi d'ombra

Nella foto Branch Rickey
Nella foto Branch Rickey

di Michele Dodde

E’ dal 1997 che ogni anno il 15 aprile tutti i giocatori di baseball della Major League entrano sui diamanti indossando la casacca numero 42, numero ritirato da tutte le franchigie americane in omaggio a Jackie Robinson, il primo giocatore afroamericano ad iniziare a giocare nello sport professionistico statunitense. Gli americani, un popolo che ha sempre avuto il desiderio di coinvolgersi nella storia, ha dato origine con giusta causa a momenti esaltanti immergendoli poi in un’ammirevole tradizione per appagare sogni e morale. Jackie Robinson dunque con il suo avvento nel mondo del baseball della Major League, allora esclusivamente appannaggio dei bianchi, è divenuto l’icona della complessa integrazione razziale ma a promuovere questa ricercata favola fu Branch Rickey, proprietario dei Brooklyn Dodgers, che è passato alla storia come il primo illuminato personaggio che, tramite il baseball, con determinazione ha voluto promuovere la fine di una gretta mentalità favorendo una eguaglianza dei diritti e dei doveri.

In realtà il baseball, attraverso la sua pratica sportiva, aveva di per sé già promosso e vinto quell’insieme di processi sociali e culturali, a partire dall’inizio del diciannovesimo secolo, nell’isola di Cuba dove il gioco, importato da quei tanti studenti che avevano avuto la fortuna di frequentare i college in America dove lo avevano imparato insieme agli ideali di nazionalismo ed indipendenza, era fortemente osteggiato dagli spagnoli, che dominavano l’isola, poiché avevano concreti motivi di temere la cultura americana, e che  cercarono in tutti i modi di vietarne la pratica perché vista come “ribelle e filoamericana scatenante l’ostilità verso la Spagna”. 

Allora, e questa è storia, il baseball sull’isola caraibica fu visto come un modo ideale per combattere contro l’impero spagnolo che aveva ridotto in schiavitù centinaia di migliaia di cubani fino alla sua abolizione nel 1886.

 

Artefice principe dei sovvertimenti culturali che hanno inciso nella cultura e mentalità a Cuba fu José Martì, scrittore, poeta, massone, filosofo e giornalista, figlio di emigranti spagnoli, che fortemente influenzato dal grande pensatore statunitense Ralph Waldo Emerson, incominciò la sua campagna di lotta per mettere in atto una rivoluzione per ottenere l’indipendenza dalla Spagna e, contemporaneamente, opporsi all’annessione di Cuba agli Stati Uniti, fondando nel 1892 il Partito Rivoluzionario Cubano.

 

Morì il 19 maggio del 1895 durante la battaglia di Dos Rìos ma aveva avuto la possibilità di scrivere, pubblicare e diramare il 25 marzo di quello stesso anno il suo vibrante “Manifesto di Montecristi” in cui veniva proclamata la giusta determinazione dell’indipendenza cubana, che doveva porre fine a tutte le distinzioni giuridiche tra le razze, instaurando l’abolizione di qualsiasi tipo di discriminazione ed isolamento delle minoranze.

 

Forgiati da questi suoi principi ideali, i cubani combatterono e conquistarono la loro indipendenza e, una volta liberi, migliaia di giovani hanno seguitato a giocare a baseball come sport nazionale poiché era visto, quel gioco, come unico sentimento comune ad averli accompagnati in pectore nel contrastare il dominio spagnolo ed amato come intrattenimento per tutti loro di qualsiasi colore. 

"The Stars of Cuba”  1910
"The Stars of Cuba” 1910

Fu a Cuba allora che Branch Rickey, attento dirigente alla ricerca di talenti che migliorassero il roster della sua franchigia, e forse motivato anche dall’idea di dare una significativa svolta al mondo del baseball che stava involvendosi su se stesso dando il via all’inizio di un moderno insieme di processi sociali e culturali, prima di ingaggiare Robinson inviò i suoi scouts a Cuba per capire l’acclarato spirito dell’integrazione razziale raggiunto nell’isola ed anche in ricordo di quell’armoniosa tournée che fece negli Stati Uniti la rappresentativa già integrata “The Stars of Cuba” nel 1910.

 

Era molto consapevole che non era facile smuovere certi macigni mentali e pure se era viaggiante la notizia che molti giocatori americani, per sbarcare il lunario, accettavano di andare a giocare a Cuba durante il periodo invernale, non così avveniva da parte dei giocatori cubani a venire a giocare in terra americana. 

Nella foto Armando Marsans e Rafael Almeida (SABR.org)
Nella foto Armando Marsans e Rafael Almeida (SABR.org)

In verità nel 1911 ci fu una timida iniziativa da parte dei proprietari dei Reds di Cincinnati nell’ingaggiare i caraibici Armando Marsans e Rafael Almeida ma subito il quotidiano “The Cincinnati Tribune” del 23 giugno andò a chiosare: “I Reds hanno posto sotto contratto due giocatori della lega del Connecticut che hanno sangue spagnolo nelle vene e sono molto scuri. Non appena si è diffusa la notizia che i Reds stavano negoziando per i cubani, dai tifosi è scaturita una protesta contro l'introduzione del talento cubano nelle fila dei principali campionati”.

 

La cronaca racconta poi che la protesta rientrò solo dopo che la folla, in attesa alla stazione, potè constatare che i due giocatori erano sì di pelle scura, ma non nera, e di  estrazione europea, ovvero spagnoli. Marsans e Almeida così furono accettati. 

 

Poi furono i Boston Braves tre anni dopo a porre sotto contratto il talentuoso lanciatore Adolfo Domingo De Guzman “Dolf” Luque, l’indiscutibile prima stella del baseball cubano, ma Dolf era un cubano bianco con espressivi occhi azzurri e rimase a giocare in Major League per 21 anni indossando anche le casacche dei Reds per 12 anni e passare poi ai Robins/Dodgers di Brooklyn ed ai Giants di New York. L’aver dominato per così tanti anni nella Major League lo hanno reso un aristocratico eroe popolare nella società cubana. 

Nella foto Silvio Garcia Rendon (SABR.org)
Nella foto Silvio Garcia Rendon (SABR.org)

Dunque durante il loro soggiorno a Cuba, gli scouts dei Dodgers inoltrarono a Branch il nominativo di Silvio Garcia Rendon, funambolico interbase e buon lanciatore.

 

Quando l’atleta afrocubano fu convocato da Rickey per una formale conoscenza e per inquadrare meglio il personaggio cui affidare il peso dell’iniziativa in mente, alla specifica domanda di come si sarebbe comportato “se un bianco ti schiaffeggiasse perché sei un nero” il buon Garcia, non molto consapevole della fragile situazione razziale negli Stati Uniti negli anni '40, schiettamente, guardandolo fisso negli occhi rispose laconicamente: "Lo uccido".

 

Indiscutibilmente Garcia dimostrò di avere un forte “fegato” dinnanzi ad atti provocatori e discriminanti, ma Branch Rickey andava alla ricerca di un giocatore che avesse invece un forte “fegato di non reagire”.

 

E lo trovò in Jackie Robinson… 

 

Michele Dodde

 

 

Scrivi commento

Commenti: 1
  • #1

    Marcella De Rubertis (lunedì, 20 aprile 2020 15:37)

    E questo ci fa capire quanta strada hanno dovuto compiere i "democraticissimi"
    Stati Uniti d'America e quanta ancora ne dovranno compiere, se mai ci riusciranno, per comprendere il significato di DEMOCRAZIA