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100 anni di solitudine

di Frankie Russo tratto da un blog americano.

Credo che la persona più sola in una squadra di baseball sia l’allenatore. Non è difficile riconoscerlo, lì in disparte, nel suo angolo della panchina, circondato, se fortunato, dai suoi pochi “bravi”  coach (scorer e poco più), gli stessi che prima del famigerato terzo canto del gallo saranno pronti a lasciarlo in balia degli eventi. L’allenatore, colui che è destinato ad essere “IL” capro espiatorio da sacrificare alle Divinità del baseball se le cose non vanno bene, è l’unico che nelle foto guarda da un’altra parte, se capita di vincere. E pensare che in principio l’allenatore semplicemente non esisteva: era il giocatore più anziano della squadra o colui per carisma o per diritto di nascita, che assumeva il ruolo di capitano. Era lui ad impartire ordini e a fare la formazione, salvo poi appassionarsi e cominciare a pensare (quale illusione…) di essere l’uomo del destino, colui che trasforma gli uomini in eroi. 

Eccolo, così trasformato in allenatore. Un dilettante (nel senso che “si diletta” ad allenare) ma che poi, tanto dilettante non è visto che si è sciroppato corsi, abilitazioni, clinic, in un parossismo di centri di preparazione olimpica, autogrill, stanze condivise con compagni di viaggio dal sonno pesante e dal russare poderoso, investendo in tutto ciò l’equivalente del PIL di una repubblica caraibica. 

 

Ha poi passato notti insonni a perfezionare e rielaborare ed ancora perfezionare programmi d’allenamento, ha girato per i campi per vedere le amichevoli degli avversari, leggere, studiare e analizzare.

 

Questo uomo avventuroso, lo si riconosce subito anche dall’abbigliamento:

è quello che ha sempre la divisa diversa dal resto della squadra (ed anche se l’avesse come gli altri sarebbe della misura sbagliata) perché quando arriva in squadra i dirigenti gli dicono: Aspettiamo le divise nuove, che per ora sono finite…

 

Prima che gli forniscano un giacchetto per ripararsi dall’acqua bisogna aspettare il passaggio dei monsoni e per avere, eresia, un paio di scarpe deve ostentare per alcune settimane vecchie Superga sfilacciate con vista ditone.

Per riuscire a farsi offrire una birra gratis al bar del campo, ci vogliono almeno due vittorie per non parlare di avere un sorriso, per il quale occorrono mesi di applicazione. 

 

A casa poi ci sono notti insonni e agitate, fame compulsiva, assenze, distrazioni, inappetenze di nuovo compulsive che si accompagnano a veri stati di allucinazione nelle febbrili notti vigilie delle immancabili partite della verità.

 

Dai giocatori non si deve aspettare nessun aiuto:

sono cordiali, affidabili, fanno complimenti e lo chiamano con nomignoli affettuosi solo nella speranza di giocare, se sono riserve, o per il timore di essere relegati in panchina se sono titolari. Tutti lo fanno, comunque, sempre e soltanto per sperare in minori fatiche ed ottenere favori o favoritismi. E poco importa se trotterellano allegramente durante i giri di campo e se le palle rimbalzano nel guanto o volano alte oltre la recinzione perché essi devono chiacchierare, loro hanno sempre qualche scusa pronta o, nella versione più evoluta, qualche minaccia del tipo: “mica sono un professionista”, “ho un sacco di cose per la testa”, “sei troppo professionale”, “ce la sto mettendo veramente tutta”, “tu mi tratti così ma sappi che l’Atletico Borgotrecase mi vuole e mi ha cercato”. 

 

Non bisogna nemmeno farsi illusioni se sembra che le cose vadano bene perché prima o poi questo si rivelerà un pericoloso boomerang: basta un campionato vinto ed ecco che arriva il chiacchierone di turno, convinto di avere diritto ad un futuro fatto di fiducia ed entusiasmo, che comincia ad immaginare anni felici e la possibilità di “cambiare quello che non va”. 

E’ un errore imperdonabile. Gli stessi dirigenti, i tifosi (pochi) che in ottobre festeggiavano la promozione come se in campo fossero scesi loro a metà aprile, a stagione appena iniziata (e la tuta ancora non si vede) sono pronti a dimissionarlo perché “quest’anno ha perso mordente”.

 

Basta una sconfitta inopinata contro la solita Dinamo Riotortodisotto che, complice la delazione di alcuni giocatori, il malcontento inizia a serpeggiare insidioso.

 

Non sono certo gli errori “di guanto” ed i lanci al rallentatore a far perdere le partite, e nemmeno la lentezza generale o il non prendere i segnali: è lui, è colpa sua, con i suoi metodi, con le sue idee bislacche, proprio non ci divertiamo, ha fatto il suo tempo.

 

A questo punto per lui sarebbe meglio andarsene, sarebbe anche meglio essere cacciato anziché rimanere ancora più solo, senza giacchetto, con le scarpe bucate e la divisa diversa (sempre che alla fine sia riuscito ad averla), senza un cane che lo saluta, senza più abbracci e senza più nomignoli.

 

Ma se tutto questo è vero, senza possibilità di smentita, perché continuiamo a farlo? Perché continuiamo a stare lì in quel posto solitario, sotto gli occhi sornioni e presuntuosi di quelli che, loro si, saprebbero come fare, come gestire e chi far giocare? 

 

Lo facciamo perché ci sono momenti in cui, anche se la solitudine è totale e opprimente, il tempo sembra fermarsi, cominciano a succedere cose che le persone intorno a te riusciranno a capire soltanto dopo, mentre tu già sapevi da prima che sarebbero successe.

 

E quando saranno pronte a reagire, o penseranno di poterlo fare, questo accadrà esattamente un secondo dopo che tu avrai deciso cosa fare e l’avrai anche già fatto. 

 

E’ quel secondo, in verità, che cancella tutto il resto.

 

Frankie Russo

 

 

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