
Basta un nome o un numero per indicare il superamento di una dead line che già a partire dal 1876, anno in cui dopo un nuovo compromesso i reparti dell’esercito nordista furono ritirati dagli stati del Sud occupati per smacchiare quello spirito di violenza razziale fomentata dal generale Nathan Bedford Forrest, eroe sudista della guerra civile, sembrava potesse essere cancellata: Jackie Robinson o il numero 42. Molti i libri scritti su questo personaggio divenuto una indicativa icona spartiacque suo malgrado, molti i film che hanno interessato gli aspetti emotivi ed interpretativi di un personaggio capace di affrontare momenti e situazioni più terrificanti del previsto, molti i dubbi ed i pensieri suscitati su schemi organizzativi propri di una società ancora tutta in via di comprendersi.
Curiosamente redatto in terra afghana dal giornalista Scott Simon durante un incarico di inviato speciale in zona di guerra, il libro “Il mio nome è Jackie Robinson” (in Italia edito da 66THAND2ND) la dice lunga del perché egli abbia sentito l’impulso emotivo di descrivere, dal suo personale punto di vista, il quadro dell’intera vicenda che investendo quell’intrigante passatempo nazionale che è il baseball andava a coinvolgere non pochi interessi economici e sociali.
In effetti, quando negli Stati americani cessò l’onda lunga della guerra civile, ebbe inizio quella serpeggiante idea della segregazione razziale ben delineata da Raimondo Luraghi nel suo completo saggio sugli Stati Uniti: Nord e Sud: “I principali leaders negri, come Booker T. Washington, -egli scrive- si resero perfettamente conto che la gente di colore, abbandonata a se stessa dai politici del Nord, non aveva altra strada che cercare di coesistere nel migliore dei modi con i bianchi e trar tutto il partito possibile dalle sia pure limitate opportunità che le si offrivano. Del resto alcune misure di segregazione furono volute dai negri stessi (…) ma così pur in mezzo a mille ostacoli i negri cominciarono un lungo e faticoso processo di autoeducazione (…) per trovare le forze morali e la consapevolezza per combattere la loro battaglia in vista della piena uguaglianza civile”.

Dunque questo lento ma continuo pensiero filosofico fece nascere e progredire, con risultati tutti da osservare e rimarcare, una evoluzione di attività collaterali dove i negri divennero protagonisti di indiscutibili successi sia negli affari sia negli spettacoli sia al servizio della nazione (Esercito, Marina, Aereonautica) sia nello sport ed in particolare nel baseball espresso tramite una singolare ed appropriata iniziativa: la Negro League.
Poi comunque da non sottovalutare entra in gioco il Destino che di sua volontà improvvisamente decide di amalgamare in alcuni attori sane prospettive, valide necessità, cospicui interessi ed un’etica morale di primo piano: Branch Rickey “un uomo che per mestiere incontrava banchieri sindaci commissari delle Major Leagues e magari qualche capomafia” e Jackie Robinson “un uomo che non beveva non fumava non correva dietro alle donne e che ambiva ad andare sempre avanti”.
Un sintetico dialogo unisce i due personaggi: “ Io so che lei è un bravo giocatore “ disse Rickey “ ma devo sapere se lei ha fegato”. Una domanda che colpì Robinson per via di certe giocate mancine che a volte accadevano sui diamanti e che rispose quasi allarmato: “Vuole un giocatore senza il fegato di reagire?”. “No – rispose con veemenza Rickey - Voglio un giocatore che abbia il fegato di non reagire !!!”
Correva l’anno 1947, giovedì 15 aprile. Con questa perentoria richiesta di misurare il proprio coraggio non sulla fierezza ma su un decisivo autocontrollo, Rickey con la sua coraggiosa volontà e Robinson con la casacca nr. 42 dei Brooklyn Dodgers andavano a cancellare un’avvilente settantennale segregazione dando inizio ad una integrazione destinata a portare cultura e progresso.
Michele Dodde
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Maria Luisa Vighi (martedì, 26 marzo 2019 10:01)
Un articolo appassionato e competente come sempre. Direi che entra quasi in un' aurea mitologica!