
In questo campo cinquantacinque anni fa scoccò quella scintilla che mi fece innamorare per sempre di questo sport. Nacqui nel 1954 in quell'area che nella mia città tutti conoscono come Veronetta e che si pone al di là del fiume Adige rispetto il centro storico, la zona forse più religiosa della città in quanto vi era la sede oltre che di molte chiese, anche di numerosi conventi di suore e preti. Sotto il campanile della chiesa di Santa Maria in Organo, la mia parrocchia, c'era la vecchia scuola elementare Bartolomeo Rubele dove frequentai le classi dalla prima alla terza elementare e dove insegnava mio malgrado il maestro Primo Siena.
Il maestro Siena aveva un metodo un po' differente dagli attuali. Passava per la classe con una bacchetta in legno di faggio che soleva picchiare sulle mani quando la risposta alla sua domanda non gli era gradita. Una volta fece aprire il quaderno dei compiti a un mio compagno e gli promise che a ogni compito non fatto questi si sarebbe guadagnato un ceffone. Quello che disse fece e al "ropèta" (era così da noi sopranominato perché non stava mai fermo) rifilò una decina di ceffoni sulla nuca tanto che il collo gli rimase rosso per tutta la giornata.
A quel tempo era affare di scuola e i genitori difficilmente si recavano dagli insegnanti a difendere il propio figlio, ma mia madre saltò a piedi pari il problema e mi spostò presso l'Abramo Massalongo, scuola confinanante con la caserma Passalacqua allora sede della U.S. Army e cioè la base militare americana. Un giorno seguendo la lezione sentii tre fortissimi colpi di cannone che fecero tremare i vetri. Mi spaventai molto; era la prima volta che udivo simili boati e chiesi cosa fossero stati. Il mio nuovo maestro Fornari, che al contrario di Siena mai picchiò alcun alunno, rispose: "sono gli Americani" ed io di rimando: "ma a chi sparano?" e con un sorriso mi rispose "ma a nessuno! sparano a salve".
Gli Americani in quei primi anni sessanta erano circondati da un alone di mistificazione. La guerra era finita non da molto e i racconti dei genitori e dei nonni erano molto vividi. I mezzi che conducevano erano più grandi di quelli dei militari Italiani, i camion, le jeep e persino il passaggio a volte di carri armati era un'ostentazione di potenza. Per non parlare dei soldati stessi. Capelli rasati, fisici statuari, insomma Americani era per noi ragazzini sinonimo di uomini invincibili.
Il 4 luglio festa dell'Indipendenza si aprivano i cancelli delle basi americane in Italia e così fece anche la Passalacqua in quel 1963 e con gli amici non mi pareva vero poter entrare in quel recinto dove erano partiti i colpi di cannone. Fu una giornata memorabile. Questo modo di essere soldati, la generosità di offrire di tutto, dalle aranciate, biscotti, hot dog li rendeva dei super uomini ai nostri occhi. Mai avevo visto tanto ben di dio e per giunta gratis e a quei tempi non ce n'era poi molto.
Ad un certo punto accadde che fummo attratti da un campo strano recintato dove un gruppo di soldati con strane uniformi e un cappellino con la visiera facevano roteare la palla velocissima. Era un mondo nuovo, affascinante. I guanti, le mazze, i rumori di quel gioco furono ben più di una scintilla. Rimasi con le dita nella rete per non so quanto tempo finché i miei amici mi portarono fuori di peso.
Passarono gli anni e persi di vista quel gioco finché mio cugino non mi portò ad una partita tra due squadre italiane: La Prora Verona e il Romcaffè Macerata. Era il 1966. Fu un vento impetuoso quello che fece divampare la scintilla della base americana del 1963. Suoni, colori, profumi, sfottò. Nulla a che vedere con i tempi attuali e nemmeno con gli anni 80/90 dove il baseball raggiunse l'apice. Il Campo del Boschetto si trovava in riva all'Adige, tanto che quando il livello del fiume saliva gli esterni giocavano con l'acqua alle caviglie. Il pubblico assaliva la recinzione con canti e sfottò che facevano innervosire gli avversari. Praticamente tutto era permesso. Per infastidire il lanciatore avversario decine di fazzoletti bianchi svolazzavano dietro il catcher. Erano anni in cui persino le mogli dei giocatori sedute dietro casa base si alzavano le gonne, dicevano che avrebbero fatto perdere la concentrazione ai lanciatori. Anni in cui le scazzottate erano piuttosto frequenti sia tra giocatori che con il pubblico. Eppure nonostante ora io provi ribrezzo al solo pensiero, erano momenti di grande magia. Non abbandonai mai più il baseball e sono passati cinquantadue anni.
Nota: Voglio ringraziare l'amico Luca Pavan che inviandomi questa foto ha rinverdito i miei ricordi di ragazzo. La terrò con cura nel mio libro dei ricordi.
Paolo Castagnini
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franco ludovisi (venerdì, 02 marzo 2018 17:14)
Leggendo il tuo brano ripercorro la strada che ho fatto anch'io anche se in modo diverso.
Ora tu a differenza mia puoi ancora partecipare attivamente al gioco.
A me, leggendoti, mi torna la voglia di ripetere quanto ho fatto in un lontanissimo 1945,
ma poi mi dico che è solo nostalgia.
LUCA (sabato, 03 marzo 2018 08:09)
una bella storia di campi di periferia e di uomini cresciuti con l'amore di questo sport.
Rosanna (domenica, 04 marzo 2018 08:29)
Il periodo del Baseball, fu in assoluto il tempo più bello per la mia famiglia. Grazie Paolo.
Paolo Pietrantoni (lunedì, 05 marzo 2018 13:27)
Grande Castagnini come sempre. La mente va a quando iniziai io al campo dell'Arcella a Padova nel patronato di sant'Antonino (gesuiti) nel 1970, non ancora 15 anni (siamo più o meno coetanei). Campionato allievi, proprio al boschetto giocai una delle mie prime partite, mi ricordo la trasferta in treno con fermata VR porta Vescovo e poi a piedi con tutto il materiale fino al boschetto, faceva un caldo opprimente e spesso sugli esterni si perdeva la pallina nell'erba alta. Vidi la mia prima partita di serie B qualche anno dopo al Gavagnin: Verona contro Pem Roma, lanciatore di Verona tale Rimini. Saluti.