
Non se ne parla mai abbastanza. Ma perché molti ragazzi abbandonano, non solo il baseball e il softball, ma in genere lo sport? Ci sono motivazioni che vanno al di la della nostra volontà, ma le responsabilità non toccano forse anche ad ognuno di noi? E' ovvio che la risposta è si, noi inteso come allenatori, dirigenti, genitori. Nella Tesi di Roberto Pasero pubblicata il 30 luglio c'è un capitolo sull'argomento che penso faccia bene a tutti leggerlo.
Il fenomeno del Drop-out
tratto dalla Tesi di Laurea Magistrale di Roberto Pasero
Una delle situazioni più complesse da trattare è il drop-out, ossia l’abbandono precoce. Ma ci si può dichiarare sedentari a 16-20 anni? Come si può passare da valori molto alti di partecipazione a 11-14 anni a valori quasi dimezzati solo pochi anni più tardi? Questi elementi, di per sé eloquenti, ci rinviano a due problemi principali: a che età si inizia a praticare sport e per quanto tempo e quanti interrompono la pratica sportiva e per quali motivi?
“L'attività sportiva in età adolescenziale, soprattutto se praticata a livello agonistico, si innesta su un terreno ricco di capovolgimenti interpersonali e problematiche esistenziali, andando ad influire sui dinamismi intrapsichici e agendo sulle capacità di controllo dell'Io e sulle dinamiche inconsce che in questo periodo subiscono massicci riaggiustamenti." (Zimbardi F., 2003)
Ogni anno migliaia di giovani smettono di praticare attività sportiva, ma raramente ciò accade perché in loro nasce una nuova passione a cui vogliono dedicarsi. I giovani abbandonano lo sport perché si trovano in una situazione in cui non riescono a soddisfare i bisogni che li avevano inizialmente spinti ad intraprendere una determinata attività.
Con il termine inglese drop-out, in ambito sportivo, si intende quel fenomeno che avviene nel periodo adolescenziale, caratterizzato dall’abbandono precoce dello sport da parte degli atleti. Questo elemento è un problema di fondamentale importanza per il futuro del giovane che non pratica più attività, con ripercussioni sulla propria salute.

Prima di tutto, si può dire che l’abbandono di un giovane attivamente coinvolto è difficilmente recuperabile in tempi brevi; occorre fare analisi separate per i due sessi: i maschi, infatti, in larga maggioranza praticano il gioco del calcio, che è uno degli sport con permanenza più lunga al suo interno (le scuole calcio, di fatto, catturano i bambini per almeno quatto-cinque anni consecutivi), mentre le femmine provengono in larghissima maggioranza dal nuoto (che viene concepito più come necessità fisica temporanea, di uno-due anni), dalla ginnastica artistica, danza (spesso molto impegnative e difficili da proseguire) e nella fase più adulta dalla pallavolo, dove la selezione (sia fisica, vedi l’altezza, che tecnica) è troppo spesso precoce. Questo spiega le differenze notevoli tra i due sessi.
L’età cruciale in questo quadro è quella rappresentata dalla classe 15-17 anni: i ragazzi sono impegnati più intensamente nella scuola, hanno già vissuto un periodo abbastanza lungo nello sport, sicuramente almeno quatto-cinque anni, irrompono i primi rapporti sentimentali con la loro intensità emotiva; infine si forma il gruppo, con le sue regole, e la necessità di adeguarsi ad esso.
L’impatto di questi fenomeni sulla vita dei giovani crea modifiche non marginali nei loro comportamenti, tra cui certamente il peso minore dato alla pratica sportiva. Se poi l’esperienza sportiva in cui sono coinvolti non è giudicata molto positiva, allora la scelta dell’abbandono è obbligata e così avviene per migliaia di giovani; insomma, una grave sconfitta per il movimento sportivo.
Due sono gli interlocutori principali di questo messaggio: la scuola e le società sportive. La prima non deve limitare il suo raggio di azione al profitto scolastico, ma deve preoccuparsi maggiormente di ciò che accade intorno ai giovani, essendo ormai accertato che la famiglia non è più in grado di assolvere da sola a questo compito; le seconde non possono limitarsi a reclutare il maggior numero possibile di giovani per inserirli nelle scuole sportive, nei centri di avviamento allo sport e in altre strutture simili, per poi selezionare i migliori e non preoccuparsi più degli altri.
Già nel 1999, in un articolo pubblicato su Preventive Medicine, elaborato dalla University of Toronto, le società sportive erano ritenute un fattore che avvicinava i giovani verso l’abbandono dell’esercizio fisico: queste possono creare un senso di insoddisfazione sotto alcuni aspetti tra cui la mancanza di divertimento e di socializzazione tra i membri del gruppo o della squadra.
Le società organizzano attività agonistiche sul territorio e tendono ad un avviamento precoce allo sport agonistico, con selezioni ed allenamenti intensivi che conducono gli individui scartati a considerarsi fuori dal gioco come atleti di poco conto. In fase adolescenziale, tutto questo produce un atteggiamento di rinuncia ad ogni successiva pratica sportiva. L’esperienza vissuta viene percepita come un fallimento e di conseguenza come fonte di insicurezza. Questo porta inevitabilmente all’esclusione e all’abbandono e lascia aperte le sole porte della delusione e della ricerca del recupero della forma fisica.
Tra le motivazioni dell’abbandono due sono i filoni principali su cui le risposte si indirizzano: il problema del tempo e dello studio e la mancanza di interesse e/o il subentrare di altri interessi. Sono due aspetti che denotano un malessere che ci deve far riflettere e su cui vanno trovate delle soluzioni, se non vogliamo che i giovani, nonostante il gran parlare di sport, siano sempre più sedentari.

Si può pertanto parlare di un abbandono fisiologico e uno patologico: per quanto riguarda il primo, è inevitabile un mutamento di interessi e di priorità nella vita dei giovani, oltre all’accresciuto impegno nello studio, e su questo aspetto è difficile pensare di poter incidere sensibilmente; sul secondo, che implica un rifiuto che sfocia nella sedentarietà, dobbiamo interrogarci su quali siano le insufficienze dell’offerta di sport che accelerano il distacco o non fanno nulla per contenerlo, in un’incapacità di rinnovarsi e di offrire modelli nuovi e più interessanti, che derivano da un’analisi seria dei bisogni e delle aspettative dei ragazzi.
Per capire i motivi del drop-out bisogna risalire alle molle iniziali che spingono i ragazzi a intraprendere un’attività sportiva: e varie rilevazioni concordano su alcuni aspetti, il divertimento, la voglia di giocare, di fare parte di un gruppo, di conoscere nuovi amici, di stare bene e migliorare le proprie abilità. Se i giovani non trovano più soddisfatti questi loro bisogni primari, vivono lo sport come un obbligo e una fonte di insicurezza, non di gratificazione, e quindi lasciano, per riacquistare libertà.
Il modello proposto dagli adulti e costruito sui loro paradigmi spesso non prevede gioco, gioia, allegria: al loro posto si trovano pressioni eccessive, agonismo esasperato fin da giovanissimi, il risultato e la vittoria a tutti i costi, l’illusione preclusa di diventare campioni, genitori e allenatori troppo esigenti e pressanti, che riversano sui ragazzi aspettative insostenibili, allenamenti noiosi, mancanza di supporto emotivo nei momenti delle sconfitte.
Bisogna interrogarsi anche se le radici di questo modello non affondano già nella fascia di età dell’infanzia, in una sorta di incubazione che porta poi i ragazzi a rifiutarlo quando hanno la possibilità di compiere questa scelta. Sia ben chiaro, la componente agonistica è innata, a nessuno piace perdere, ha anche una valenza positiva nella crescita psichica ed emotiva degli adolescenti; ma va assolutamente rifiutata come unico obiettivo, indispensabile per essere accettati e avere successo.
Il drop-out sportivo è un fenomeno inarrestabile e carsico, che riguarda tutto il sistema sportivo, e che emerge all’attenzione quando fatti di cronaca come gli episodi di violenza e intolleranza che coinvolgono atleti, dirigenti e genitori nei campionati giovanili o scolastici fanno riflettere sulle distorsioni del modello. O quando, come di recente, un padre viene rinviato a giudizio per aver obbligato il figlio a svolgere ossessivamente un’attività agonistica, inducendolo anche ad assumere prodotti iperproteici.
Sono degenerazioni che vanno affrontate, non rimosse, non imputando però le responsabilità solo ai genitori o agli allenatori, ma anche alla cultura collettiva del sistema Paese, che deve affrontare la questione dell’educazione motoria e sportiva dei bambini e dei ragazzi con azioni di sistema, coinvolgendo tutti gli attori istituzionali e sociali, a partire dalla scuola, e partendo da un assunto: lo sport deve essere prima di tutto un gioco e un piacere, oltre che un diritto, per tutti.
Relatori:
Ch.mo Prof. Lanza Massimo
Laureando:
Pasero Roberto
Anno Accademico 2016-2017
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Christian (venerdì, 04 agosto 2017 13:13)
Bellissima analisi, molto interessante. Spero che giunga a tutte le società sportive.