Da potere a leadership

Nella foto l'Italo/Americano Tony La Russa è il manager dell'era moderna ad aver vinto più partite in MLB (2.728 partite vinte)
Nella foto l'Italo/Americano Tony La Russa è il manager dell'era moderna ad aver vinto più partite in MLB (2.728 partite vinte)

di Frankie Russo

Tratto da due articoli di R. Procenzano e F. Sacchetti pubblicati dal mensile Focus

 

Il passo da Potere a Leadership è breve

Una madre, un padre, i figli che devono ubbidire…questione di potere. A scuola, davanti a un professore…questione di potere. La distribuzione degli spazi in un luogo di lavoro…questione di potere. L’organizzazione di uno Stato… questione di potere. Essere a capo di un gruppo…questione di potere. L’idea stessa del potere è naturale, connaturata nel nostro cervello perché ha origine nel rapporto genitore-figlio.

Potere

Gli psicologi sociali, del resto, ritengono che tutte le relazioni umane, sia a livello personale, sia di gruppo o tra gruppi diversi siano regolate da rapporti di potere. Ma cosa si intende veramente quando si parla di potere? Il sociologo Dennis Wrong docente alla New York University lo definisce “l’abilità di produrre negli altri gli effetti desiderati e previsti”.

Lo studioso si scienze politiche Robert Alan Dahl sostiene che il potere “è la capacità di far comportare qualcun altro come da solo non avrebbe fatto”, mentre il sociologo USA Robert Bierzstedt lo definisce “nient’altro che l’abilità di impiegare la forza”. Tutte le definizioni comunque arrivano alla stessa conclusione : il potere sociale è l’abilità di stabilire relazioni asimmetriche nelle quali chi comanda prevale su singoli o gruppi di persone.

 

Per le prime civiltà il potere era di origine divina e veniva identificato con una sola persona.  Questo concetto è rimasto in vigore  fino alla prima metà dell’800 quando i giuristi tedeschi diedero per primi la sovranità al concetto di Stato, e quindi di popolo, proprio per evitare che venisse identificato in una sola persona.

 

Leadership

Non è possibile guidare un gruppo di persone se l’autorità non viene riconosciuta dai sottoposti che s’identificano nel loro capo fino a considerarlo uno di loro. Insomma, a portarci a seguire qualcuno, a sposarne le idee, in pratica ad accettare che un’altra persona possa guidarci, è soprattutto la constatazione che questo capo è uno di noi. Funziona così in famiglia, a scuola, sul lavoro, in politica e nello sport. E il passo da potere a leadership è breve.

 

Si dice che fare il genitore sia il mestiere più difficile perché farsi ubbidire dai figli è faticoso. Figurarsi allora quanto sia difficile farsi seguire da persone mai viste prima. Non esiste una ricetta per il capo perfetto, esistono strategie utili per chi deve dare ordini, e alla fine sono le stesse per un politico, per un direttore di marketing, per un caporeparto e per un allenatore di una squadra sportiva.

Nella foto il grande Alberto Sordi nella scena de "Il vigile"
Nella foto il grande Alberto Sordi nella scena de "Il vigile"

Tossici o positivi.

Esistono due tipi di capo in base ai tipi di potere che usano: il leader tossico che usa il potere gerarchico o di ruolo, e il leader positivo che invece usa il potere personale. Il leader tossico, per ottenere qualcosa dal suo team usa tre tipi di comunicazione: ordina (io sono il capo e fai questo), minaccia (se non fai questo ti punisco, ti sanziono), e usa la forza (se ti opponi , lui ti scavalca, o lo fa fare a qualcun altro e ti rimuove). Il leader positivo, invece, ha l’abilità con il suo comportamento di far fare cose agli altri perché lo vogliono e non soltanto perché costretti, convincendoli della bontà delle sue idee.

 

 

Facile capire quale sia l’ambiente dove si sta meglio: quello in cui il potere gerarchico coincide con quello personale. Il capo è lì perché è stato imposto, ma viene anche riconosciuto come tale, lo si ascolta e ci si confronta. Al contrario, l’ambiente con il leader tossico è malsano perché si obbedisce a un capo a cui non si riconosce la leadership, lo si subisce. Eppure, anche un capo tossico e autorevole può essere accettato se sa usare la parola d’ordine: coinvolgimento. Chiedere il parere a tutti, ascoltare tutti, pure i più giovani, anche se poi la decisione finale sarà la sua. A tutti però è arrivato il messaggio di essere considerati, essere parte della squadra e non solo un numero.

Derek Jeter era considerato un giocatore di grande carisma
Derek Jeter era considerato un giocatore di grande carisma

Carisma

E’ noto che molti capi sono nominati per il loro carisma, elemento necessario per chiunque voglia trascinare un gruppo verso un obiettivo. Non è necessario essere una persona carismatica, ma è utile essere percepito come carismatico.

 

Il capo privo di carisma non ha capacità relazionali e di comunicazione, non riuscirà a ottenere consensi, e quindi difficilmente potrà raggiungere il suo obiettivo. Il capo carismatico possiede un equilibrio tra sei qualità: l’entusiasmo, la fiducia di in sé stesso, l’espressività emozionale, l’eloquenza, la visione futura, la sensibilità.

 

Molte persone sono istintivamente carismatiche, ma è pur vero che molte delle sopra elencate qualità possono essere apprese, ma alla base di tutto devono esserci autostima e passione. Il leader vincente è quello sicuro di sé ed è spinto dalla passione per quello che fa. Proprio perché ci crede davvero, trasmetterà più entusiasmo e fiducia negli altri.

 

Non solo parole

Il linguaggio per un capo è molto importante, i leader empatici, coloro che esercitano una forte influenza sugli altri facendo leva sulle emozioni suscitate, usano per esempio un linguaggio emozionale, ricco di parole che trasmettono emozioni di base che vengono immediatamente colte dall’audience.  Si è potuto rilevare che nei discorsi di molti capi a livello mondiale, comparivano spesso le parole come “amore”, “odio” o “avidità”, oppure frasi che creano empatia tipo “provo anch’io il vostro sentimento” piuttosto che “posso capire il vostro punto di vista”.

 

Il linguaggio del capo visionario, che vuole trasmettere chiaramente agli altri la direzione di un progetto, deve essere ricco di immagini e metafore. Non deve essere astratto, ma ricco di esempi concreti. Il bravo leader deve anche curare il linguaggio del corpo, come si muove, come sta in piedi o seduto, come gesticola. Quello che conta non è sempre ciò che si dice, ma come si dice. Il leader più apprezzato sorride spesso, ascolta attentamente gli altri, guarda negli occhi e annuisce spesso con la testa. Anche il tono della voce è importante. Per averlo calmo e rassicurante si deve parlare in modo sciolto, ma non troppo veloce, anche le pause al posto giusto fanno gioco. E poi il corpo non deve muoversi tanto, chi esprime autorevolezza sta più fermo, non gesticola troppo, sta in piedi con il busto eretto, ha una postura aperta e occupa più spazio intorno a sé.

Nella foto Sparky Anderson manager dei Reds (1970-1978) e Tigers (1979-1995)
Nella foto Sparky Anderson manager dei Reds (1970-1978) e Tigers (1979-1995)

Energia e coerenza

Autostima, sensibilità, passione. Un'altra dose di energia che vira verso l’ottimismo. E l’ambizione, fondamentale per fare i sacrifici necessari a non mollare mai. Sono queste le parole chiave del buon capo, dando per scontato che deve avere capacità decisionali che derivano dalla sua competenza. Altro elemento importante è la coerenza. Se vuole che gli altri diano il massimo, il leader deve dare l’esempio: arrivare per primo e andarsene per ultimo. E deve seguire sempre il suo obiettivo, che piaccia agli altri o che non piaccia, anche perché un bravo capo non deve per forza cercare il consenso di tutti. Per ottenere risultati, cercare di piacere a tutti non serve, anzi, è il modo migliore di perdere autorevolezza. Ecco perché il leader dovrebbe avere il coraggio di scontentare qualcuno.

 

Quando fu chiamato a guidare i Detroit Tigers nel 1979,  l’eletto nella Hall of Fame Sparky Anderson, uno dei due manager ad aver vinto le World Series in entrambe le leghe (Tony La Russa è l’altro), nel suo discorso di presentazione ai giocatori ebbe a dire: “Non vi chiedo di volermi bene. Quello che mi dovete è rispetto e ubbidienza”. Nel giro di cinque anni trasformò la franchigia da una squadra di brocchi in una delle migliori squadre di sempre vincendo le World Series nel 1984.

 

Frankie Russo

 

 

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