La solitudine del lanciatore

Racconto di Michele Dodde

Il tempo ed il luogo ormai gli erano familiari, quel diamante poi era diventato una sua seconda pelle per come conosceva ogni filo d’erba rasato e quella terra rossa più volte nemica nei rimbalzi. Tuttavia sentiva che quella sera poteva e certamente doveva essere una sera diversa e straordinaria, anzi la sera da ricordare poiché in quella sera si giocava la gara ultima e decisiva di un campionato scosso sempre da una classifica molte volte resa incredula per via della leadership. Le premesse poi c’erano tutte: la squadra che girava a mille, un pubblico amico e la scelta caduta su di lui quale lanciatore partente. 

Quella fiducia lo aveva tonificato; le sue dita rigiravano le cuciture della pallina quasi a volerne carpire i segreti; il guanto, il suo guanto, stava dividendo con lui la comprensibile emozione; la sua divisa nel complesso ostentava freddezza; i suoi spike accarezzavano con sicurezza la pedana. Egli era già pronto lì sul monte di lancio permeato fortemente dalla sua consapevole solitudine quando quella chiamata di “ play ball “ dalla voce tonica dell’umpire lo fece trasalire e lo gettò di fatto con violenza nell’agone sportivo. Più volte aveva ripercorso con la mente le prime lezioni sui fondamentali che il tecnico Paolo con grande pazienza gli aveva insegnato ma ancora ricordava quando saggiamente gli disse che in fondo il baseball era un gioco e come tale doveva essere giocato bene anche da grande perché anche ai grandi piace giocare. Lui dunque ora era stato chiamato a giocare e dunque doveva farlo bene. 

Al primo lancio si sentì quasi sospeso tra l’incertezza nell’assecondare i segnali del suo catcher ed il vociare che dalle tribune andava crescendo. Ma i lanci successivi che stava incominciando ad effettuare gli sembravano dettati dal caso e tuttavia farraginosi nei contenuti per tutti quei particolari che sapevano di antico e che non potevano essere comuni o divisibili. Questo perché così egli intimamente sentiva di intendere il suo ruolo: non un modo diverso e particolare ma singolare nella sua eccezione perché lì sul monte egli era solo e solo con se stesso. Difficile forse da far intendere, ma quante volte aveva cercato di assorbire filosoficamente la personalità di un Juan Marischal o di un Sandy Koufax senza dimenticare che avrebbe voluto anche intuire la vitalità di un Carlo Tagliaboschi o di quell’eclettico Giulio Glorioso per uniformarsi agli estrosi disegni trigonometrici di Gianni Sbarra all’occorrenza?. E chi avrebbe mai compreso come la stessa kabbalah accomunava il suo ruolo al Sole ma di fatto doveva essere manifestato come Volontà pura?.

Comunque quella sera, come tutte le altre sere però, era il diorama del campo di gioco e l’ansare misto dei suoni a portargli la concretezza di una realtà che lo stava coinvolgendo più del dovuto con una emotività che voleva essere viva e palpitante poiché in verità nulla era cambiato nei lanci dalla prima volta pur se proprio nei particolari poteva intravedere il tempo trascorso nel completare gli inning. Poi, come è giusto che avvenga nella terra di mezzo tra Elysian Fields e travolgenti fantasie che si delineano vere solo se vince la melodia del crescendo, accadde che il braccio stava frombolando la pallina sempre con più armonia e duttilità quasi a nobilitare il ricercato miele di struggenti leggende. Ed ora l’enfasi della voce dell’umpire nel giudicare gli strike e sanzionare gli out sembrava lontana ed ovattata tale da sfiorare quei magici momenti. E la consapevolezza di essere lì sul monte di lancio a dare linfa e brio al gioco con soluzione di continuità pur nella sua primordiale solitudine gli fece iniziare a vivere su una dimensione parallela come su quei sentieri che si perdono sempre all’infinito nella campagna e finemente segnati in una scenografia multicolore. Il clamore del pubblico e la voce dei compagni poi si andavano confondendosi in un tutt’uno che lo lasciava per tale motivo indifferente.

La gara era ormai giunta alla fine del settimo inning e quasi stava pensando alla brutalità del manager che sarebbe andato a prelevarlo da quel suo mondo incantato quando in un attimo si accorse che nessun avversario era giunto salvo in prima base e si rese conto allora del perché i suoi compagni lo avevano coinvolto in più e vari “ batti cinque “ richiesti mentre indossava la casacca nel dugout. Poi questa volta anche lo sguardo buono di Frankie, quel singolare manager dall’italiano molto accentato, lo stava fissando quasi a volergli rubare i pensieri per dargli una forma da plasmare. E mentre la tensione ed i fremiti dei compagni andavano a vivacizzare i temi del line up si avvide che non aveva mai conosciuto altre similitudini a questi fatti e che certamente nessuno si stava chiedendo come tutto era cominciato nè quando si sarebbe avuta la certezza di poter essere protagonisti coinvolti in una partita perfetta. Di certo l’unico testimone fu quella sua decisa volontà di guardare avanti prima degli altri ed offrirsi con semplicità e serenità e quel dio sconosciuto della vittoria. Si accorse allora che tutti quelli che erano nel dugout gli stavano dando estrema fiducia ed allora toccava il cuore il sudore, calmavano le onde la corsa sulle basi, leniva gli attimi la certezza di un battuta vincente ad onta degli odi e dei ricordi di un antagonismo passato. 

Le luci vive delle otto torri e la leggera brezza quella sera non disegnavano il limite del percorso ma anzi in esso si permeavano come un unico fiore. Così stava cambiando la scenografia con nuovi colori pronti ad essere sfumati nella nuova dimensione che diveniva senza tempo se il tempo avesse potuto avere un’anima. Ed al movimento dei suoi compagni si confuse il silenzio e la carezza sulla spalla da parte di Frankie dai toni significativi per quel valore comunicativo che lega il muto linguaggio ad atti più nobili. La gara si incamminò nell’ottavo e nono inning lungo un sentiero fatato e non vi erano limiti ad una gran gioia di perdersi tra applausi ed allungare il tempo di percorrenza sino alla soglia del possibile come è giusto e si vuole siano le cose belle come una preghiera che scalda l’anima, come una stretta di mano che dia calore, come un abbraccio che non sa di sale, come uno sguardo che si perde negli occhi e sfiora i capelli e si unisce ai movimenti delle ombre per non morire mai. Dopo l’ultimo out che sanciva la sua partita perfetta, frutto di una solitudine mentale, si avvide che quella era stata una vittoria ricercata, voluta e nata sulla costante preparazione e che per grandezza poteva nascere anche altrove se avesse saputo amare il sapore vero delle cose ricordando semmai tutti i passi cari perduti banalmente e l’egoismo di chi non vuole più accettare le soglie del conformismo. E vera era la gioia scaturita senza fini se non ritrovarsi in momenti esclusivi intimi e virtuali e così fuori dagli schemi. Ma cosa era quella sensazione che stava emergendo in modo inarrestabile?. Era la normale comunicatività che si instaura tra chi improvvisamente si trova a vincere e la semplicità pura di chi invece è andato oltre per la grande volontà di esserci. E questo perché lui sapeva di amare il baseball e se si ama giocarlo, il baseball sarà sempre come un fiore che non appassirà mai.


Michele Dodde


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Commenti: 1
  • #1

    Cecco (lunedì, 30 novembre 2015 18:58)

    "Valore comunicativo che lega il muto linguaggio ad atti più nobili." Virtù di un'era ormai lontana. Complimenti!