
Quella che vi voglio proporre oggi è una lettera trovata casualmente sul web. Racconta un'altra verità sul mondo professionistico. Ho ritenuto possa essere di aiuto ai tanti giovani che sognano di arrivare alla Major League, non per scoraggiarli, ma per guardarsi dentro e capire se realmente è quello che desiderano e se sono pronti a provarci. Racconta la storia personale di un prospetto pieno di talento che oggi a 37 anni si guarda allo specchio e si chiede se ne valeva la pena. No, è la sua risposta, ma non è un invito a rinunciare all'opportunità, ma piuttosto di guardarsi dentro e capire se la nostra mente e la nostra emotività è pronta ad affrontare un mondo durissimo; quello del baseball professionale. Credo che tutti i giovani debbano coltivare un sogno, ma è necessario anche che sappiano quale è il prezzo da pagare e soprattutto se quelle monete sono in loro possesso. Ringrazio come sempre Frankie Russo per l'accurata traduzione.
Il rumore della mazza, il volo della pallina, il sole sul cappello la chiamata arbitrale
Traduzione di Frankie Russo
Ricordo perfettamente il momento in cui decisi di firmare il mio primo contratto:
“Aspetta. Dovrei pagarmi quattro anni di college se non ce la faccio?
“Si”, fu la risposta.
Era il 1996 quando decisi di firmare per gli Arizona Diamondbacks e diventare un giocatore di baseball a livello professionistico. Avevo 18 anni quando fui selezionato al liceo rinunciando a molti benefici scolastici e, come si desumerà in seguito, è risultato essere il più grande errore della mia vita. Ma a 18 anni si pensa di sapere tutto.
Guardando indietro al mio passato: non giocavo solo a baseball, ma il baseball scorreva nel mio sangue, ed io ero tutto uno con il baseball. Amavo il baseball più di ogni altra cosa. Invece di studiare l’inglese, scrivevo stupidi poemi sul baseball.
Il rumore della mazza, il volo della pallina, il sole sul cappello, la chiamata arbitrale
Tutto ciò che desideravo era diventare un giocatore professionista di baseball. E’ vero, ero dotato delle 5 più importanti abilità, ma fu il mio duro lavoro che fece la differenza rispetto agli altri. Costruii una gabbia di battuta nel cortile di casa e non smettevo fino a quando le mani non sanguinavano. Mentre i miei amici erano fuori a festeggiare, caricavo sulle spalle 14 kg di pesi e correvo sulla vicina collina. Ero disposto a tutto pur di arrivare a giocare nella Major League.
Fui tra le prime selezioni degli Arizona Diamonbacks. Buck Showalter (attuale manager degli Orioles, ndr) e il suo staff erano già stati assunti dai DBacks, ma siccome la squadra non era ancora iscritta al massimo campionato, e non lo sarebbe stato prima di un paio di anni, anziché stare senza far niente, decisero di seguire noi nelle minors. CASPITA! Stavo lavorando con Buck Showalter, Brian Butterfield, Bill Presley e, soprattutto, il coach per gli esterni era il grande Dwayne Murphy. Sono cresciuto ammirando Dwayne Murphy vincere gold glove dopo gold glove. Ricordo come conservavo con cura le sue figurine in bustine di plastica, e ora ero sotto la sua guida tecnica.
E come mi allenavano! Compresi molto presto che non avevo nessuna concezione di come si giocasse a baseball. Non conoscevo i fondamentali, non conoscevo le tattiche, non conoscevo il gioco. Buondio, fu stupefacente la differenza che fece in me Dwayne Murphy nel migliorare le mie abilità difensive e come m’insegnò a eseguire correttamente una traiettoria per catturare la palla. NON CAPIVO ASSOLUTAMENTE NIENTE! Imparare tutto questo era come avere una costante erezione di baseball. Giorno dopo giorno stavo imparando a giocare a baseball.
Ci fu un solo problema quel primo anno come rookie: avevo fatto schifo.
Ero un giovanotto magrolino di 82 kg che aveva battuto con la mazza di alluminio per tutta la vita. Dovetti usare la mazza di legno e non ero abbastanza forte per girarla sulle veloci a 93mph. Facevo schifo, puro e semplice.
C’erano anche un paio di giocatori in squadra che facevano i bulli con me. Sono cresciuto con una buona educazione e mi hanno insegnato ad essere gentile; non avevo idea di come affrontare quelle situazioni. Ero una persona molto rispettata a scuola, e qui invece dovevo tollerare i soprusi di un paio di giocatori. Non mi sono mai difeso.
Ad ogni modo fu una lunga stagione da esordiente e ricordo Bill Presley, verso la fine dell’anno, passare davanti al mio armadietto. Mi ero appena tolto la maglia e ci fu uno scambio di parole:
“QUELLO è il tuo vero problema.”
“Quale?”
“Sei troppo magro.”
Abbassai la testa
“Questo è ciò che voglio tu faccia. Durante la offseason, vai in palestra e fai pesi, pesi e ancora pesi”.
Ed è ciò che feci. Tra i circa tre mesi che intercorrono tra il campionato Rookie e Insructional League, trascorrevo 6 giorni la settimana con un istruttore professionista di pesi per due ore al giorno. Nel frattempo, misi 7 kg di muscoli sulla parte superiore del corpo. Quando iniziò la International League ero in gran forma e, buondio, si vedeva la differenza!
Ricordo ancora la prima volta che girai la mazza nella gabbia dell’Instructional Legue. Uno dei coach, Tommy non ricordo il nome, lanciò la palla e BOOM, la colpii violentemente. “VOLA, VOLA FUORI DAL CAMPO” gridai. Non solo ero tornato in forma, ma ero meglio di prima. Ero forte, battevo la palla da tutte le parti e la distruggevo ad ogni battuta.
Per quello che ricordo, avevo un solo problema, mi faceva male il braccio. Sin da giovane, proprio a causa degli indolenzimenti, avevo sempre messo del ghiaccio sul braccio dopo aver tirato. Non importava a che livello giocassi, Little League, liceo, college o da professionista, avevo sempre l’abitudine di mettere il ghiaccio. L’unica differenza da professionista era che quando andavi in infermeria, oltre a usare solo le pezze per mantenere il ghiaccio, il braccio veniva avvolto anche con la plastica. Ma non ci prestai molta attenzione, era ciò che dovevo fare per poter giocare il giorno dopo.
Giocai molto bene nell’Instructional League. Anche se nessuno teneva le statistiche, io ovviamente tenevo le mie e realizzai una MB oltre 300. Era magnifico. Verso la fine del campionato, dopo una seduta di allenamento, fui chiamato in disparte da Dwayne Murphy.
“Che c’è Murphy?”
“Sai, sei uno dei nostri migliori prospetti .”
“Grazie”.
“Si, ma stai in infermeria OGNI SINGOLO GIORNO. Cominciano a chiamarti femminuccia.”
Non posso descrivere quanto male mi fecero quelle parole, come mi fecero sentire. Non fui in grado di rispondere, non trovavo le parole. Sapevo che se avessi tentato di rispondere sarei scoppiato a piangere (giusto come una femminuccia). Quindi non dissi una parola fin quando Dwayne se ne andò.
“Una femminuccia”. Essere apostrofato una femminuccia nello sport professionistico dal manager e dai coach che hanno nelle loro mani il tuo destino è…qualcosa che ti spezza il cuore. Sin da quando avevo 10 anni ho lavorato come un forsennato per raggiungere il traguardo dove mi trovavo ora, e adesso mi definiscono una femminuccia.
STRONZATE.
Giurai a me stesso che mai più avrei messo piede in infermeria, mai più.
Nel giro di una settimana ero di nuovo in infermeria perché avevo la spalla destra gonfia. A guardarla bene era almeno 3 cm più alta dell’altra. Il dottore mi prescrisse delle medicine e delle pomate per il rilassamento dei muscoli. L’ eccessivo uso della medicina mi faceva vomitare e facevo un uso così discriminato delle pomate durante la notte che a volte il mio compagno di stanza dovette svegliarmi la mattina.
Ma perddio, per nessun motivo al mondo mi sarei comportato da femminuccia.
Terminata l’Instructional Legue, nel corso della offseason dedicai più tempo possibile per la riabilitazione del braccio. Fui invitato allo Spring Training, ma durò molto poco, dopo una settimana di allenamenti di 12 ore al giorno, il braccio era di nuovo gonfio. Soffrii anche per delle infiammazioni agli stinchi. Le infiammazioni mi causavano tanto dolore che a stento riuscivo a camminare, e prima che me ne rendessi conto, avevo anche le emorroidi. Mi prescrissero altre medicine e pomate oltre a quelle che già prendevo e la conseguenza fu che il mio “fondo schiena” diventava una palude durante gli allenamenti. Avevo tanto dolore sia di giorno che di notte che a stento riuscivo a dormire.
Ma perddio, non avevo nessuna intenzione di tornare in infermeria.
Un’altra breve storia, ma poi dopo un paio di settimane scoppiai; dovetti arrendermi. Mi recai dal General Manager e chiesi di essere rilasciato. Non mi rilasciarono, ma mi permisero di tornare a casa. In poco più di un anno di baseball professionistico, avevo perso tutto quello per cui avevo lottato per tutta la vita.
Avevano ragione, ero una femminuccia.
Una femminuccia nel fisico? No, non è esatto. Ma dopo una lunga storia di cui non voglio annoiarvi, realizzai finalmente che mi comportavo come una femminuccia emotivamente. Non ero forte abbastanza emotivamente per diventare un giocatore della Major League.
Non ci sono alternative; per giocare nella Major League devi avere un fisico forte, devi sapere controllare la mente e le emozioni. La mancanza di controllo emotivo mi ha portato a non avere il controllo della mente.
Ritorno con la memoria a quel ragazzo di 18 anni e mentre scrivo questa lettera mi chiedo se ascolterei le parole di quest’oggi 37enne: “Hai molto talento, ma non sei cresciuto emotivamente. Hai il fisico di un 18enne, ma non mostri 18 anni emotivamente. Torna a scuola e cerca di crescere emotivamente!”
Ma ho i miei dubbi che mi avrebbe ascoltato.
Mi auguro però che in giro ci siano dei 18enni disposti ad ascoltarmi. Mi chiedo se ci sono 17enni e 18enni che SONO abbastanza maturi, che HANNO abbastanza forza per controllare le emozioni per superare gli ostacoli che ti guidano al baseball professionistico.
Si, sono sicuro che ci sono, ma molti altri non lo sono. La riflessione interna è molto difficile da gestire. Io ancora non ci riesco.
I migliori genitori e coach sono quelli che crescono i loro ragazzi fisicamente, mentalmente ed emotivamente. Fino alla fine dei miei giorni mi chiederò sempre come sarebbe stato se non fossi stato una femminuccia. Non auguro a nessuno l’amarezza che si possa provare quando sei stato te stesso a decretare la fine del tuo sogno, vi distruggerà per sempre.
Se avete dei dubbi, continuate ad andare a scuola. Create il vostro spazio per crescere.
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Michele Dodde (venerdì, 13 febbraio 2015 11:47)
Questa lettera, insieme a quella di Babe Ruth ed al sermone del reverendo David R. Van Dyke, delinea in modo eccezionale una ulteriore sfaccettatura del baseball. Più che il campo di gioco, il vero diamante è proprio lui, il gioco antico, che tra luci ed ombre specchia sempre una folgorante luce pregna di convinte meditazioni. E' una storia triste quella raccontata, ma è una storia vera come vere sono altre storie controverse e pur sempre ammaliate da "Il rumore della mazza, il volo della pallina, il sole sul cappello, la chiamata arbitrale" che poi è la sintesi estrema del gioco.
Amiamo però i nostri sogni affinchè essi durino per sempre anche dopo il risveglio brusco del mattino, poichè solo attraverso essi ci si avvicina alle porte del Paradiso.
Grazie Paolo per aver trovato la lettera, grazie Frankie per averla tradotta, grazie a chiunque la leggerà poichè essa è un attimo di meditazione e vita.